Gianna Albertin

Mutamenti

Volantino

Forme articolate, curiose, inusitate, misteriose e totemiche accompagnano l’ultima produzione di Gianna Albertin.

Siamo di fronte a ceramiche elaborate, nutrite di segni grafici, pigmenti e inserti di materia argillosa che rimandano, in taluni casi, a strutture primigenie, ancestrali.

C’è un richiamo forte alla “madre terra”, a partire dalla stessa creta, lavorata, incisa, impressa e modellata, sulla scia di una prassi antica e rituale. Prevale il gusto della linea curva e sinuosa, delle sagome tondeggianti e avvolgenti.

Non manca quasi mai un foro o un’apertura, a celebrare una sorta di via di fuga, di possibilità di riscatto, di “ascesa” verso una dimensione astratta, liberata da ogni contingenza.

opere tridimensionali esibiscono superfici accidentate, mosse e variegate con trame in cui si alternano parti ruvide e lisce, parti rientranti e sporgenti. La materia insegue stati d’animo che si trasformano in emozioni plastiche e sensazioni tattili che la magia del fuoco restituisce in volumi stabili, capaci di affascinare e interrogare lo sguardo di ogni osservatore.

Notevolissima la produzione delle ceramiche bidimensionali che evocano arazzi con motivi iconografici vagamente surreali, fantastici, attraversati da un leitmotiv ricorrente: un cerchio nero ripetuto, cadenzato e ritmato. Si tratta, forse, di impronte che non si cancellano o di nubi che accompagnano, inevitabilmente, il fluire dei giorni e dei sogni e più in generale della vita stessa.

C’è una volontà superiore di tenere tutto unito perché nulla vada franto o perduto: gli spaghi possenti legano come in un libro, le sequenze interrotte e ricomposte di questi “tappeti volanti”, universi mobili e poetici densi di spessori, di pause e di vuoti.

Agli arazzi “spiegati”, aperti in textures sapientemente aggettanti e mosaicate, fa da contrappunto l’opera Srotola, in cui quasi niente ci è dato a vedere: il titolo contiene l’invito ad agire, a “srotolare”, appunto, una forma chiusa, recante nella propaggine esterna strani alfabeti, simili a scritture cuneiformi arcane e intraducibili.

In realtà ci è data “solamente” (si fa per dire) la facoltà di immaginare e quindi la risorsa più grande che possa scaturire da un’opera d’arte.

I lavori recenti di Gianna Albertin hanno la dote di renderci interpreti attivi di una vicenda umana, poetica e artistica a lungo meditata, sedimentata e abilmente restituita in profili e figurazioni in apparente mutamento che mai ci lasciano indifferenti.

Lo studio, l’analisi e l’esercizio costante sono alla base di una ricerca attenta e sensibile dentro il grande alveo della ceramica contemporanea che tanto seduce e commuove.

Lorena Gava

Mani, Terra, Fuoco

I lavori recenti di Gianna Albertin, realizzati con la sapienza dell’arte ceramica, ci coinvolgono nella sfida, che l’artista continuamente rinnova, tra la materia e la forma. Alle mani che plasmano la creta, si pone l’ostacolo di ciò che è possibile fare con essa, ed è su questo confine che si esercita la tensione interiore che non disattende l’obbiettivo. Con questa predisposizione, “tra il poter essere e l’essere possibile”, superata anche l’ultima forma del forno “alchemico”, l’oggetto si soggettizza, non cede alle ragioni estetiche, ma conserva le tracce del processo. Nel raggiunto punto di equilibrio, che a volte è solo fragile stabilità, si mostra il nervo scoperti che muove l spazio.

I volumi ammansiti, piegati e perforati di questi lavori, come organi di un corpo sensibile, sono abitati dalla traccia del respiro che si espande o contrae suggerendo un dentro prossimo, l’incarnazione di un luogo. Sono architetture che l’intima esteriorità fa vibrare, f orse capaci di contenere cielo, terra, cenere, frutto, e che non posano statiche, ma animate dall’urgenza d’essere cose tra le cose. Oltrepassando la dimensione scultorea e pittorica, gli alberi, l’acqua, la testa d’animale, i tappeti, realizzati da Gianna vogliono partecipare allo spazio frantumando l’identità della materia, al limite tra vero e verosimile. Per giungere a questo, l’artista, fa della superficie la tabula esperienziale sulla quale radunare le trascorse competenze di segno e colore. Usando la tavolozza, dove i gialli-celeste si inseguono come i margini del cielo tiepolesco, i rosso-aranciati, forse d’ispirazione simbolista fraseggiano sull’opaco dell’ingobbio, prepara le forme dell’incontro con la luce che mondanizza. I tappeti in particolare, per la qualità degli interventi d’incisione, scrittura, impronta, pigmento si propongono quale glossario generale della produzione dell’autrice.

Come un tegumento dismesso durante la muta o una spessa epidermide tatuata sollecitano lo sguardo a percorrere i solchi, i piani, i racconti, a seguire le traiettorie di macchie intermittenti, le tacche segnaletiche nero e bianche che mimano fori o scotomi di un punto cieco dell’occhio, evocando il buio dal quale, sempre, l’opera viene. L’artista vede non vedendo, vede mediante il fare e, con le mani illumina, fa strada, cerca di orientare il compimento. Allora, forse, per il tramite di questi oggetti, inseguendo le tracce che Gianna Albertin ci propone, sarà possibile attraversare le apparenze per nuove “dimensioni”, inverando in noi un mutamento, come sembra auspicare il titolo dell’esposizione.

Nerella Barazzuol