Sillabari
Storie di tappeti e di grafemi
È ogni volta un piccolo miracolo quello che trasforma un grumo amorfo di creta in un lavoro. Sarà perché il grumo è di per sé metafora di insignificanza radicale, stato primigenio di materia immobile, hyle, priva di idea da trasmettere, sarà perché la trasformazione magicamente avviene attraverso il fuoco, la cottura, cioè un atto archetipico di civiltà (senza neanche far ricorso a Il crudo e il cotto di Levy Strauss…). Il fuoco che trasforma come in un processo alchemico l’informe in un oggetto, ob-iectum, qualcosa che ci si pone invece davanti e si lascia interrogare, ci interroga, perché porta segni. Sarà perché di mezzo ci sta un lavoro fatto con le mani, le dita che imprimono senso a ciò che è lì, aspetta. Sarà per tutti questi motivi ma vedermi squadernare davanti uno dopo l’altro i lavori di Gianna Albertin è stata un’emozione profonda, come se prima ancora di chinarmi a “leggere” le opere fossi chiamato ad assistere a una sorta di evento. E l’emozione è continuata a lungo perché l’impronta che l’artista imprime sulla creta è profonda, capace di scardinare in modo consapevole e intelligente quel destino artigianale a cui spesso materiali come il legno, la creta, i tessuti sono condannati per tradizione.
I primi lavori che mi si parano davanti sono la splendida serie dei tappeti. Tappeti di ceramica? Arduo immaginare un’antitesi più stridente visto che la flessibilità e la morbidezza difficilmente si adattano a un materiale così rigido e definito. Eppure sottili strati di creta, sapientemente lavorati e solcati da una fitta trama di segni ci restituiscono una tessitura, danno vita a un piccolo miracolo per cui la creta si anima di frange, si distende e pare aver acquistato una sua inaudita flessibilità. Ma un altro elemento varrà la pena sottolineare: la cucitura centrale grazie alla quale il tappeto si apre, letteralmente, ma al tempo stesso si squaderna nel senso che riporta alla mente l’idea della lettura, della rilegatura. È importante sottolinearlo fin da ora perché quello della leggibilità è un tratto che percorre tutta l’opera esposta, non a caso raccolta sotto il titolo di Sillabari. Ad aprirli, questi tappeti di terra, ci rivelano la meraviglia di un mondo coloratissimo, fatto di macchie e linee brillanti, ma a cercare fra le pieghe già scopriamo fitte trame di caratteri, discorsi segreti che siamo chiamati a decodificare. A pensarci bene siamo davanti a una stratificazione suggestiva di paradossi: il tappeto che sta sulla terra diventa tappeto di terra, il tappeto che si vorrebbe disteso di fatto diventa verticale spostando di volta in volta l’ordine costituito dei rapporti. E ve n’è perfino uno arrotolato, di tappeto, che non si aprirà più bloccato com’è nella sua rigidità di terra bruciata, a raccontarci la nostra esclusione, l’impossibilità per noi umani di trovare un luogo in cui stare, un tappeto in cui riconoscerci. Il tappeto che ci porta nella dimensione della leggerezza e del sogno, della sosta e del raccoglimento, è diventato un’aspirazione irrealizzabile, a meno di non scioglierne i legami più nascosti e ridargli vita.
Queste letture simboliche potrebbero sembrare a qualcuno forzate o magari esagerate non fosse che ci conforta qualche osservazione buttata là dall’autrice stessa che ricorda come spesso la genesi di alcuni lavori tragga ispirazione proprio dalle urgenze e dai drammi della contemporaneità. Questo complesso gioco di antitesi fra rigidità e leggerezza, realtà e sogno, immobilità e volo sono una riflessione “materica” sulle contraddizioni del nostro esistere, politico, sociale ma anche individuale, sui conflitti irrisolti di ciascuno di noi, su contrasto insanabile fra desiderio, aspirazione e realtà contingente. Si osservino a tal proposito i due magnifici lavori dedicati agli alberi della vita, sorgenti archetipiche di novità così ben radicate su un tappeto … volante.
A questo gioco di spaesamenti siamo coinvolti anche nella serie che chiamerò dei parallelepipedi: scatole, di fatto, strutture minimaliste ed elementari che portano su di sé decorazioni simboliche, forme ripetute e arcane che paiono contenere in nuce rivelazioni profonde. Ma colpisce l’alternanza di concavo convesso, chiuso aperto con cui le forme si alternano, quasi a metterci di fronte a un dentro/fuori che è il nostro stesso interrogarci, il nostro destino di chi oscilla dolorosamente fra l’io e il mondo, fra una dimensione privata e una pubblica in una tensione irrisolvibile.
E chi o cosa ci protegge da questa dialettica lacerante? Ci occorre un guscio che ci definisca, uno scudo che ci protegga e provvidenzialmente sono proprio degli scudi quelli che escono dal forno di cottura, grandi scudi colorati capaci di fornirci una corazza per poter stare al mondo, oppure, ancora in questo gioco di suggestivi capovolgimenti, capaci di diventare ciotole per raccoglierci, per darci una consistenza e una forma. È qui, ancor più che altrove, che ritroviamo la cifra di Gianna Albertin, quella specie di sigillo che rende riconoscibile il suo lavoro: mi riferisco ai grafemi che ricoprono fitti molte superfici dei suoi lavori, come una scrittura arcaica mai decifrata che conterrà formule segrete e salvifiche ma che non si rivela più. Viene da pensare ai primi oggetti della nostra civiltà occidentale, il disco di Festo o le tavolette in lineare A, indecifrate ancora: una beffa tragica, in fondo, essere irrimediabilmente esclusi da quelle che erano le prime voci della nostra storia, esuli dai segreti che forse ci avrebbero salvati, privati dei primi assiomi e costretti a vivere con una perenne sensazione di insignificanza. Questo ci raccontano e ci ricordano i caratteri misteriosi graffiti sulle terrecotte di Gianna Albertin: cadenze di salvezza, a saperle leggere, ricordi di una sapienza perduta la cui sola vicinanza, seppure incomprensibile, vale a consolarci.
Lascio per ultime, a completare il discorso, una serie di altri lavori in cui tutte le possibilità della ceramica si dispiegano per ulteriori suggestioni di lettura. Penso a certi quadretti deliziosi in cui le stratificazioni di terra e gli effetti della cottura ci restituiscono paesaggi arcani, quasi geologici, luoghi perduti di quando forse non esistevamo ancora, oppure a certi vasi dalle forme improbabili in cui sembra gonfiarsi una pienezza di vita sul punto di traboccare, di esplodere. O ancora a certe sculture dalle geometrie dilatate e inattese che Gianna chiama “il ciclo della natura”. A significare forse che se una risposta possiamo ancora trovare alle nostre ansie e al nostro esilio questa è nel miracolo continuo della riproduzione, nelle metamorfosi inesauribili della natura che ci circonda, capaci, se solo ci abbandoniamo, di catturarci ancora e inserirci di nuovo nel nostro elemento, nello scorrere sorprendente delle forme, sempre nuove e sorprendenti, disposti a farci colorare dalla sorpresa come la terracotta si colora in modo imprevedibile per una sottile corrente di ossigeno o per un lieve sbalzo della temperatura.